Tutti conosciamo il marchio di patatine racchiuse nell’iconico tubo, nate da un’idea della Procter&Gamble che chiamò al lavoro Alexander Liepa per lavorare al progetto di “una patatina che non si rompesse e non fosse troppo unta”.
All’inizio furono distribuite soltanto tra l’esercito statunitense per poi diffondersi al pubblico americano a partire dalla fine degli anni ’60.
Ma come sono giunte e soprattutto si sono diffuse in Italia?
Il processo di diffusione del prodotto nel nostro Paese comincia nel 1999 ed ebbe un successo clamoroso grazie al sapiente utilizzo del cosiddetto “marketing della privazione”!
Per far esplodere il prodotto e soprattutto renderlo un’abitudine di consumo tra gli alimenti degli italiani, la squadra del marketing di Pringles decide di creare un prodotto di culto, pari a replicare i successi commerciali di Coca-Cola o Swatch.
Nei mesi precedenti al lancio nei supermercati e nei bar, si inizia a creare intorno al prodotto una cosiddetta aspettativa insoddisfatta, facendo parlare ovunque di questo nuovo tipo di patatina dalla forma particolare e racchiusa in un packaging insolito, ma rendendola praticamente introvabile.
La formula che viene fuori è prodotto inaccessibile: desiderabilità aumentata.
Nei primi mesi del ’99 iniziano quindi a comparire nei locali glam più in voga del momento tra Milano e Roma confezioni di Pringles, ovviamente non si possono comprare, sono soltanto fornite ai tavoli; le Pringles poi diventano lo sponsor ufficiale di eventi sportivi più importanti e sono partner di radio famose.
La storia va avanti per interi mesi, fino al lancio ufficiale in commercio a Maggio dello stesso anno.
Parte finalmente la commercializzazione della patatina diventata ormai simbolo dell’esclusività ma qui la Procter&Gamble gioca ancora l’ultima carta: viene innanzitutto distribuita in bar e luoghi di acquisto d’impulso, prima di essere ufficialmente rivenduta nei supermercati.
Una strategia di marketing che porterà Pringles a fatturare 100 milioni di euro in Italia soltanto nei primi 12 mesi, portando ad un complessivo aumento medio del 25% della richiesta di snack salati.